METTI IL DITO SU UN VETRO
METTI UN DITO SUL VETRO
La ricetta - in fondo - è molto semplice: ci vuole un pomeriggio d’autunno di quelli grigi, umidi, con la nebbia spessa a metà del Mottarone… e la stufa.
Ma una stufa seria, niente a che vedere con il riscaldamento dei termosifoni: una stufa che abbia nella pancia un adeguato rifornimento di legna, ma che rigorosamente sia quella della “buzza”, la solita piena del lago per San Bartolomeo quando a fine estate rami e tronchi strappati alle montagne finiscono il loro pellegrinaggio a fare grandi isole galleggianti in mezzo al lago mosse dalla corrente o finiscono incagliati sulle rive.
Rami poi raccolti, tagliati, asciugati, accatastati sotto i porticati o in cantina e che pergenerazioni sono stati la materia prima per imbrogliare l’inverno e cercare di render calde – o almeno meno fredde - le cucine della gente.
Ma non divaghiamo perché alla ricetta manca ancora la cosa più importante: l’Isola.
L’isola c’è davvero ed in autunno è una cosa ben diversa da quella cacofonia assurda che diventa l’invasione turistica: solo ad ottobre riprende il suo silenzio, una sua dignità, la sua dimensione che è poi quella di sempre.
A questo punto uno si starà chiedendo a che cosa serve un’Isola, una stufa ed un pomeriggio d’inverno, magari verso sera, e tutta la poesia invece nasce di qui: con la stufa che bolle i vetri pian piano si appannano e con il dito potete cominciare a farci righe e finestrelle e - se siete fortunati - ecco il miracolo: al di là del vetro si torna bambini.
E vi ricordate di quegli stessi pomeriggi quando si era all’Isola in casa della nonna Olga, con il fuoco acceso nella “Franklin”. C’erano lo stesso cielo e le stesse case, lo stesso odore che sa un po’ di muffa e un po’ di pesce e soprattutto lo stesso silenzio.
Solo la gente era diversa.
E piano piano vengono allora in mente tante cose. Dalle lunghe sere d’estate quando si correva a perdifiato per i vicoli giocando a guardie e ladri slanciandosi fin sulla riva. C’erano tanti bambini allora all'isola, non come adesso.
D’inverno, invece, la domenica pomeriggio erano gli uomini a giocare alle bocce sulla riva, con grosse palle pesanti di legno scuro e un tavolo con un fiasco di vino rosso che veniva dal circolo, i bicchieri e la lavagnetta segnapunti.
Allora, all’Isola, c’era perfino il parroco: radunava i bambini prima di cena sui gradini di un viottolo che scendeva dritto verso il lago e noi tutti intorno, per un rosario fatto di parole strane e che non finivano mai.
Intanto facevamo i chierichetti, con la sottana nera sperando di avere l’onore - era un premio - di portare il turibolo per la benedizione eucaristica…
E mentre i ricordi dietro il vetro corrono veloci come per il montaggio di un film ti rendi conto che quello è il film della vita e che tanti di quei volti che ti erano vicini adesso non ci sono più, ma non sono andati lontano perché sono lì a due passi, giusto dietro la chiesa.
L’Isola infatti è lunga quattro spanne, ma gli isolani da secoli le vogliono bene ed hanno pensato che restarci anche da morti sia molto meglio che rimanere lontano da casa.
Così il camposanto l’hanno fatto lì, in mezzo alle case, e c’è una morale - in fondo - come risposta a chi la morte la nasconde ed i cimiteri li allontana il più possibile, quasi a tentare di imbrogliare la vita.
Altre volte, dai disegni sul vetro, ritorna in vita la scuola dell’isola. Già, perchè perchè fino agli anni '60 all'isola c'era anche la scuola elementare fondata solo trent'anni prima tanto che mio padre – che era del '21 – per andare a scuola era stato costretto a prendere il battello fino al Collegio Rosmini di Stresa.
La scuola aveva sede in “riva dietro”, in quella che era stata la casa di Ugo Ara, un famoso musicista dell'orchestra di Toscanini che si era innamorato dell'isola e qui aveva passato i suoi ultimi anni legando poi alla comunità isolana una rendita cospicua (mangiata poi dall'inflazione), un letto perpetuo all'ospedale (mangiato dall'ASL) ed una casa che purtroppo ora, adibita a magazzino, sta lentamente andano in rovina. Io facevo la seconda elementare a Pallanza quando mi spedirono per un trimestre in un’aula così diversa da quella a cui ero abituato. Una sola maestra per tutte le classi e una mezza dozzina di alunni che stavano tutti insieme così sentivi una lezione che era sempre diversa e secondo me imparavi alla svelta e anche di più. La maestra abitava in due stanze all'ultimo piano e anche suo figlio – che si chiamava Paolo – era in classe con noi.
Adesso anche la scuola non c’è più, ma sollevando l’edera di fianco al cancelletto, verde ed arrugginito sotto c’è ancora la targa bianca “Scuola Elementare” in granito di Baveno.
Un altro personaggio che si staglia dietro i vetri è la nonna Olga, che ai tempi era un po’ la Podestà dell’Isola. Si era sposata nel ’19, lasciando Milano per tornare a sposare il nonno subito dopo la prima guerra mondiale. Era una “ragazza del '99” e mentre nonno Felice faceva il pescatore come suo padre e suo nonno in un rincorrersi di generazioni, la nonna Olga aveva studiato, aveva fatto le “tecniche” ed aveva un lavoro importante alla Zust-Ambrosetti.
Così- tornata al paesello - aveva impiantato nel ’21 un commercio ittico e di fatto per cinquan'anni le quotazioni settimanali di persici, tortelle e coregoni pagate ai pescatori (e lungamente contrattati con la Cooperativa ) sembravano in piccolo il “Down Jones” dell'epoca. La domenica mattina, dopo messa, i pescatori passavano poi a prendere la paga della settimana e qualche volta ci scappava anche il vermuth. La nonna si vantava di aver votato al referendum del '46 per la Repubblica e quando lo diceva nonno Felice (monarchico convinto e che ho visto piangere solo quando gli hanno dato la Croce di cavaliere per Vittorio Veneto) si arrabbiava e giocava a scopa d’assi, nella solita partita dopo cena, con più grinta del solito... però perdeva comunque quasi sempre.
Un ricordo tira l’altro, anche se per noi bambini i giorni più belli erano quelli delle alluvioni. Giornate di nuvoloni pesanti che si schiantavano contro le montagne e giù acqua dall’Ossola e dalla Svizzera. Il lago che si gonfia, livido, cresce ed invade gli scantinati finché, una mattina, conquistava d’impeto le passeggiate e le strade e ti ritrovavno le onde in tinello con qualche cavedano coraggioso che ispezionava il nuovo territorio.
Ogni casa, all’Isola, ha sempre per prudenza un’uscita posteriore e mentre tra una casa e l’altra si montavano passerelle noi ragazzi tutti contenti, a mollo, in quell’atmosfera da “importanti” perché sinistrati, sperando – scellerati - che la pioggia proseguisse ancora un po’.
Le barche da pesca - quelle che i turisti chiamano “da Renzo e Lucia”, quasi che non siano profondamente diverse da quei gusci che vedi sul Lago di Como - erano tutte ormeggiate “alla coda”, dove la terra è più alta e di solito il lago non arriva.
Sul lago ecco la “buzza”, con le isole di legname vaganti di proprietà del primo che le avvista (se ci mette un “segno”), così che diventa roba sua.
Sui muri le tacche delle alluvioni famose, come quella del 1868 quando - dicono - il sole non si vide per 42 giorni. Possibile? Fatto sta che all’isola erano tutti scappati ed accampati sulla montagna, in attesa che finisse il diluvio.
***
Fuori adesso è diventato notte, passato l’ultimo battello in giro non c’è più nessuno ed è difficile vedere tra i vetri, la nebbia ha cancellato le distanze e il silenzio è quasi assoluto.
Qualcuno direbbe che è l’ora in cui tornano in giro i protagonisti dei ricordi, a commentare le novità e scambiarsi confidenze.
Forse nonna Olga preciserà che il prezzo dei coregoni ormai è andato alle stelle, mentre la vecchia maestra ripeterà che è un insulto lasciar cadere a pezzi la scuola.
Ma son fantasie: attraverso i vetri non si vede più nulla, per sentirli parlare bisogna cambiare dimensione, ma per adesso non si può.
Il campanile batte le ore e facendo attenzione si sentono altri campanili dei paesi lungo la costa che più o meno tempestivamente rispondono al richiamo. Segnano le ore che passano per tutti, eppure per ciascuno hanno un suono diverso.
(1992)