IL PLINIO E LO SGARITT
Interventi
IL PLINIO E LO SGARITT
Tutti siamo cresciuti
leggendo la storia del gabbiano ribelle Jonathan Livingston e forse anche per
questo i gabbiani ci sembrano un modello di libertà.
Godono di “buona stampa”
come i delfini, le tartarughe marine o le balene, con gli umani che più o meno
si preoccupano del loro destino, mentre tante altre creature animali hanno
evidentemente un ufficio stampa poco efficiente e così gli squali, le orche, i
lupi o le iene nel nostro immaginario suscitano meno “appeal” e pochi pensano
che anche loro fanno parte dell’ecosistema e che sono le naturali abitudini
alimentari che ne condizionano la vita ed il carattere..
Tornando ai gabbiani, la
vicinanza con l’uomo – e non certo per colpa loro – negli anni ne ha cambiato profondamente
le abitudini con un progressivo adattamento all’ambiente circostante estremamente
antropizzato che li porta a vivere spesso tra le discariche o nei centri urbani
vivendo di rifiuti e contendendo il cibo
ai piccioni.
Sembra essere diventata privilegiata,
insomma, proprio quella vita sonnolente e parassita da stormo che il gabbiano Jonathan
Livingston non poteva soffrire, decidendo di vivere invece solitario per
superare sé stesso.
Anche sul lago la
scomparsa di alcune specie ittiche – come le alborelle – use a vivere appena sotto
il pelo dell’acqua (e quindi facile preda dall’alto) hanno portato i gabbiani a
cambiare menu, anche se appena una barca da pesca di notte comincia a
recuperare le reti potete stare tranquilli che sarete circondati da decine di
gabbiani, posati tutti intorno nella speranza di recuperare qualche scarto.
Basta poi che uno cominci a garrire che immediatamente cresce un concerto
generale finchè – magari picchiando un remo in acqua – non si ristabilisce un
po' di calma notturna.
Ma non tutti i gabbiani (che
in dialetto da sempre si chiamano “sgaritt”) sono fatti così e ce n’è sempre
qualcuno solitario, che sembra vivere alla Jonathan Livingston.
Ne conoscevo uno di quel tipo
e che aveva un rapporto tutto particolare con un altro uomo davvero un po' speciale
come era il Plinio Ghidoli.
Il Plinio pescava qualche
volta le trote d’inverno in mezzo al lago con la sua lunga trotiera di fil di
rame, ma soprattutto puntava ai persici in tutte le stagioni.
Grande portiere di calcio
in gioventù, il Plinio era soprattutto un pescatore da barca e quindi da
tirlindana, uno che i fondali di Pallanza e del Golfo Borromeo li conosceva
alla perfezione ed aveva quel naturale senso di orientamento dettato
dall’esperienza che non ti fa sbagliare una legnaia a trecento metri da riva.
Qui bisognerebbe spiegare
bene cosa sia una “legnaia” ma limitiamoci a chiarire che è (o era, visto che
la tradizione sta scomparendo) una grande catasta di fascine di legna verde ben
fissate sul fondo del lago dove d’inverno trovano riparo e casa i pesci persico
nidificandoci poi a primavera.
In barca ci si girava
intorno lentamente d’estate con la tirlindana, ovvero un lungo filo di bava con
in fondo un pesciolino che serviva da esca al persico oppure – d’inverno – con
un peso che la posizionava più verticalmente ai margini della catasta. Sul
fondo, appena sopra il piombo, uno o due braccioli di bava con un amo e il
solito pesciolino a fare da esca.
Bisognava essere bravi a
rimanere il più possibile vicino alla legna, ma senza mai agganciarci l’ amo o il
piombo, altrimenti si strappava tutto. Se vi sembra facile pensate che magari
ci sono trenta metri d’acqua dal fondo alla chiglia della barca e basta quindi un
filo di vento o di corrente per spostarvi in pochi secondi: o siete bravi a
tenervi fermi o cambiate mestiere.
Il Plinio in questa pesca
era maestro conoscendo tutte le collocazioni delle legnaie dei Lamberti, mitica
famiglia di pescatori professionisti dell’Isola e proprietari del diritto di
pesca davanti a Pallanza. A seconda della stagione pescava in movimento sopra quelle
più vicine a riva o fermo sulle più lontane, anche se sono le meno facili da
ricordare.
Anche qui tutto sembra semplice,
ma scoprire dove sia il punto esatto in cui sul fondo ci sia una legnaia è
complicato perché, per esempio, solo “Quando il forte di Cerro esce dalla punta
dell’Isolino e la chiesa di San Martino si nasconde appena dietro il campanile
di San Leonardo” sei esattamente sopra la “Bersagliera” perché ogni singola
legnaia – ed erano decine – ha (aveva) il proprio nome e, su un libretto, si
annotavano tutti i relativi riferimenti topografici. Un libretto prezioso
passato gelosamente di padre in figlio con segnati anche gli anni dei
“rimpiazzi” perché ogni tot anni altre fascine erano spedite sul fondo ma
spiegare adesso come si fa tutta l’operazione …lo rimandiamo al prossimo libro.
Dunque, il Plinio le legnaie
le conosceva tutte e a seconda del vento e del tempo si muoveva con la sua
barchetta che - a furia di ripassate di vernice e di rattoppi - sembrava un
mezzo da sbarco mimetizzato.
Pescava stando a poppa della
sua “lancetta” (che è un po' più corta della “lancia” classica, quelle che
allora costruivano alla Sacca di Stresa nel cantiere Vidoli o in quello di
Lisanza) e bastavano due remi corti per
dare qualche colpetto avanti e indietro e rimanere più o meno fermi sui punti
precisi.
Ed è stato proprio lì che
un giorno un gabbiano è planato sulla lancetta del Plinio piazzandosi con
coraggio sulla punta di prora.
Si devono essere guardati
un attimo, si sono capiti subito, il Plinio deve avergli lanciato un pesciolino
morto che il gabbiano ha gradito e così è cominciata l’amicizia.
Che il Plinio uscisse dal
porto di Pallanza all’alba o al tramonto, d’estate o d’inverno, non faceva a
tempo a girare intorno al molo con la statua di san Dazio che il gabbiano
andava a posizionarsi in punta alla barca e di lì non si muoveva più.
Forse si parlavano,
certamente se la intendevano e più gli anni passavano più i due sembravano
inseparabili.
Se la barca restava in
porto per riparazioni il gabbiamo stava fermo, in attesa, fisso sulla testa del
san Dazio e guardava giù: “Alùra, ‘ndem?” sembrava dicesse perché - visto che
il Plinio parlava dialetto - il gabbiano evidentemente non poteva che
interloquire che con la sua stessa cadenza.
Qualche volta, uscendo
insieme per andare a persici, vedevo il gabbiano arrivare deciso verso di lui ma
- a sottolineare il suo disappunto per l’anomala mia presenza – volava intorno
e poi si posava a pochi metri dalla barca rimanendo fermo sull’acqua, forse in
attesa di riprendere il discorso. Se gli lanciavi un pesce non disdegnava
prenderlo al volo, ma confidenza zero.
Sui libri c’è scritto che
un gabbiano vive anche 10 o 15 anni e quindi non credo ci sia stato un
passaggio volatile generazionale di padre in figlio, ma penso che i due attori abbiano
continuato a pescare insieme, finchè un giorno il Plinio non è uscito più e la
sua barca è rimasta abbandonata giù al porto piena di foglie.
Un giorno, passando, non
l’ho vista più.
Era una barca vecchia e
mezza marcia, roba inutile da rubare e quindi mi piace immaginare che una notte
si sia slegata da sola e abbia preso il largo spinta dalla brisa, magari
inabissandosi proprio sopra la legnaia che sta lì davanti, con a bordo lo
spirito del Plinio e del suo vecchio amico sgaritt che così - in qualche modo – potranno continuare a pescare
e a chiacchierare per sempre.
Marco Zacchera