AI TEMPI DEL MAJESTIC
AI TEMPI DEL MAJESTIC
Turismo? Sono cresciuto in un albergo (il Majestic di Pallanza) che la mia famiglia aveva preso prima in gestione e poi man mano in proprietà - pur con tanti debiti verso le banche – e dove ho imparato a fare di tutto, dal ragazzo di portineria all’economo, dall’aiuto giardiniere al portiere di notte per finire la carriera – a soli 27 anni, ma poi l’albergo lo abbiamo venduto - come direttore generale.
Una lunga storia iniziata prima del 1950 quando i miei nonni, che vendevano il pesce all’hotel, si ritrovarono con un fallimento davanti ed un credito non pagato e allora tutti i fornitor i- dal macellaio al verduriere – decisero di rilevare l’attività dal curatore fallimentare, riassoldare il direttore di allora, il signor Casati, (mitico personaggio della mia infanzia, anche lui rimasto senza liquidazione) e in qualche modo cercare di recuperare il credito.
C’erano in giro due giovani neo-laureati di belle speranze (mio padre e mio zio) ed a loro venne affidato l’ingrato compito di riaprire i battenti. Mio padre parlava bene il tedesco e i primi clienti furono i gruppi popolari della Svizzera interna da lui intercettati che arrivavano in treno a Fondotoce, venivano portati in pullman fino all’hotel dove stavano (di solito mezzi ubriachi, perchè allora in Svizzera il vino era costoso e gli svizzeri non erano abituati al bere) per il fine-settimana fino alla domenica sera quando (spesso con un po’ di fatica) erano rispediti a Briga. Come arredamento molte camere dell’albergo – svuotate di mobilia dai soldati neo-zelandesi che avevano soggiornato a Pallanza nell’estate del ’45 - vennero comodi i bianchi letti di ospedale di un ex sanatorio di guerra...e via così sperando nella ripresa post-bellica.
Certo la gente faticava di più di oggi (ma non poi così tanto: in campo alberghiero anche adesso c’è tanta gente che lavora a lungo, tutti i giorni, con professionalità e impegno) ma soprattutto c’era una forte scala gerarchica di funzioni - ed anche di stipendio - tutta legata all’esperienza professionale.
Ricordo le bellissime foto annuali con tutti i dipendenti del Majestic - al tempo oltre 70 persone, oggi saranno poco più della metà – schierati su tre file tipo squadra di calcio con al centro i proprietari (seduti su poltroncine di vimini) e subito a fianco i pilastri dell'hotel come il capo ricevimento, il primo portiere, lo chef di cucina, il maitre di sala. Poco a poco si allargavano a destra e a sinistra i “quadri”: la governante ai piani e la guardarobiera, i capi-partita di sala e di cucina, l'economo e poi via via a scendere fino ad arrivare ai ragazzi o poco più che presidiavano le ali estreme dello schieramento con lavapiatti, giardinieri e facchini. Da qualche parte ci deve essere ancora una foto del 1965 in cui io apparivo quattordicenne vestito da ragazzo dell'ascensore, volgarmente detto “liftiè” con tanto di cappellino rigido sulla testa.
Rispetto assoluto verso chi ti comandava e quando ero tenuto a vestirmi da “comis” di sala con il cravattino bianco - ovvero il cameriere che non si sognerebbe mai di servire a tavola, ma solo di portare i piatti coperti allo “chef de range” (cravattino nero) che dal tavolino di servizio preparava le porzioni da presentare al cliente - se ti presentavi al lavoro con le scarpe o le unghie sporche il “maitre” ti spediva a cambiarle (le scarpe!) , così come il lavoro lo imparavi giorno per giorno, “sul campo” più che a scuola.
Oggi tutti i camerieri di qualsiasi pizzeria se hanno indosso una giacca bianca si presentano con un cravattino nero anche al primo giorno di lavoro, una volta te lo guadagnavi con mesi di corvée e guai a mettertelo senza diritto! Osservare e provare per imparare e - sarà anche un mio difetto- ma ancora oggi se sono seduto in un ristorante noto come si serve o si sparecchia,come si accumulano i piatti o le posate e se la “mise en place” sia corretta oppure no, tanto che spesso mi verrebbe voglia di alzarmi per urlare “Sveglia, ragazzo, non è così che si fa!”
Ma quante esperienze di vita ti facevi assistendo ai mille siparietti di ogni giorno.
Ricorderò per sempre l’imperturbabilità del capo-portiere ( giacca nera, qualche volta con le code e sempre le chiavi alla San Pietro sui risvolti della giacca) quando – all’arrivo trafelato di un marito la cui consorte si era appena involata in camera con l’ “altro” e al grido “Questa volta li ho visti!” assicurare che no, nessuno era entrato , forse c’era stato un errore . Il marito cominciava ad essere più incerto e allora il colpo di genio: “Ma si accomodi pure che le faccio portare un caffè, così potrà controllare di persona che non scende nessuno…”
E quando la coppia clandestina – sempre debitamente registrata, non si sa mai! – se ne andava in orario più tranquillo un rapido cenno per informare “lui” (l’ “altro”) che “un signore si era presentato, ma sa, per discrezione…” E qui ti voglio: o arrivava una mancia sontuosa o la prossima volta la privacy era a rischio: cenni e intese che valevano più di mille discorsi.
Per ordine dei miei genitori i capiservizio con noi erano particolarmente severi (dico “noi” perché man mano che crescevano anche tutti i miei fratelli erano “arruolati”) e guai a sgarrare.
Un giorno andavo in bicicletta a ritirare la posta del pomeriggio (allora arrivava due volte al giorno!) e per il caldo mi slacciai i gancetti del collarino rigido della giacca blu di aiutante di portineria ( con la scritta “Majestic” ricamata sul taschino!). Alle sei di sera, alla ripresa del suo orario di servizio, vengo bruscamente convocato dal capo-portiere, il mitico ed arcigno signor Gujot – che poi divenne albergatore in proprio al Sestriere – “ Si ricordi – mi fa - che la Casa (C maiuscola,il tono di voce l’imponeva, e poi con quel “lei” che a 15 anni non ti rivolge nessuno…) si rappresenta soprattutto fuori di qui. Lei oggi aveva la divisa fuori posto, quindi sono 500 lire di multa e che non si ripeta più!”.
500 lire – per la cronaca – erano, lo ricordo bene, la paga di una intera giornata, ma la lezione non l’ho mai più dimenticata.
Giorno per giorno imparavi, capivi, facevi esperienza e piano piano ti formavi prendendo in mano una professione. Ma soprattutto ti veniva “l’occhio” per le cose e presto capivi i caratteri, i rischi. Valutavi la gente, cercavi la mancia, stavi attento a non farti fregare, proponevi un prezzo o l’altro cercando di capire al volo con chi avevi a che fare. “Una camera vuota per una notte è la merce più deperibile che c’è” mi ricordava mio zio e si capiva subito chi tra il personale un giorno avrebbe avuto un albergo per conto suo e chi invece avrebbe continuato a fare le “stagioni”, dentro e fuori dalla Svizzera dove quasi tutti allora lavoravano nei mesi invernali. Imparavi a meritarti una mancia, a dividerla o meno con gli altri con il “tronco”, la minuziosa divisione delle mance collettive divise sulla base della mansione ed esperienza.
Tutti ingredienti preziosi che forse oggi sfuggono a chi - un po’ per caso e un po’ per necessità - si improvvisa a lavorare con un’ esperienza che non ha.
Ma alla lunga - anche se sono cambiati i tempi - è solo così che cresce il senso di accoglienza, la qualità stessa di una località turistica. Tutti ingredienti che troppe volte purtroppo sono oggi dimenticati.