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Ci sono posti dove forse il Signore non sapeva cosa metterci e così ha lasciato uno spazio vuoto, desolato. Gli uomini allora ci hanno inventato un carcere ed intorno è cresciuto un paese. Così è nato Avenal, California, ma non è quella dei film.
Davvero non so se i 15060 abitanti indicati dal cartello verde che a un certo punto nasce dal nulla e segnala l’inizio del paese a fianco della strada statale sia corretto, e se soprattutto inserisca i circa 8000 detenuti del carcere statale, almeno il 50% in soprannumero sui posti disponibili. Avenal vive del carcere e ci si muove dentro, ma perfino gli onnipresenti uccellacci neri che ogni tanto volano in tondo si tengono prudentemente lontani dal filo spinato.
Gli americani hanno fatto le cose perbene, tecnicamente perfette: tre barriere di rete fitta e filo spinato (quella interna è ad alta tensione), le torri che segnano il perimetro e ricordano tanto lo stile di quelle polacce, quando il sole lontano tramontava su Auschwitz. Ma qui invece la luce è abbagliante, torrida, e illumina il grande pentangono del perimetro dove dentro vivono migliaia di persone a 41° all’ombra, con in giro sorveglianti che dalla faccia sembrano di aver già visto di tutto e sopportato di più.
Gente spiccia, dura, con una batteria di utensili alla cintura che fa tanto yankee ma anche disciplina.
A te - che entri in visita- chiedono tutto: moduli, chiavi, passaporto, scarpe, ogni vestito che abbia una tinta blu, macchine fotografiche (ovvio) ma anche penne e fogli di carta.
La tessera da deputato e il foglio con i timbri con il permesso di accesso viene guardato con disprezzo “ Ma che ci vieni mai a perder tempo qui?” ti dicono occhi silenziosi e solo allora tu alzi lo sguardo verso le celle, grandi box di cemento praticamente senza finestre.
Ad oggi i detenuti sono quasi 8000, quasi il doppio del previsto, e le celle sono ciascuna per 400 (quattrocento!) persone. Credetemi: ho visitato carceri di massima sicurezza in Italia e visto il degrado di celle in Rwanda, in Egitto, in Bielorussia, ma in qualche modo - rispetto a qui – paiono quasi umane anche se tragiche perché è soprattutto il numero e la folla ad angosciarti. Eppure sei solo in un carcere a livello “due”, l’intermedio, non sei certo (ancora) nel braccio della morte.
Controlli, foto, verifiche e entri dopo aver posato scarpe, orologi, gioielli, penne, perfino la cintura. Passi i raggi x ed entri nel perimetro ma per farlo passi tanti cancelli elettrici comandati a distanza e che si aprono in sequenza, mentre ti scrutano dall’alto. Alla fine entri nel parlatorio, un salone stipato di coppie, dove la metà sono principi azzurri. Tutti in blu i detenuti, con le scritte gialle sul pantalone sinistro del rispettivo numero di matricola. Per questo gli ospiti a colloquio non possono indossare il blu: sbagli non sono concessi, equivoci pure.
Nell’alveare di una delle sale (sono almeno sette) tante file di tavolini bassi (gli hanno abbassati – dicono – perché prima sotto si facevano nascosti “atti impuri” ). Ciascuno con due sedie, un numero sul tavolino - manco fossimo in un night per le ordinazioni - ed ogni tavolo è comunque rigorosamente rivolto verso la cattedra dei sorveglianti. Sullo sfondo macchine distribuiscono caffè, bibite e tutto quel campionario di fritti e patatine in bustine che fanno la gioia di chi le mangia come vitelli all’ingrasso, ma sono la dannazione dei dietologi americani.
Adesso capisci perché ti hanno permesso di portare – visibili in un sacchetto di cellophane – fino a trenta dollari, ma in moneta o in tagli da uno: servono per far funzionare le macchinette dispense sul fondo della sala e c’è chi sta dentro ad aspetta il sabato solo per mangiare queste cose, visto che i colloqui per i detenuti sono il grande evento della settimana, prenotato a volte da mesi.
Il “nostro” carcerato non arriva ed allora ti guardi incontro: qualche vecchietto incanutito, un paio di detenuti sulla sedia a rotelle, molti i ragazzi robusti, pochi i detenuti di colore e ancor meno le ragazze carine in visita: trionfa la mezza età. Qualche bambino corre tra i tavoli ma è bruscamente richiamato da una sorvegliante, si ferma e piange.
Passa più di mezz’ora e finalmente spunta il “nostro”. Ecco Carlo Parlanti, 43 anni di Montecatini, operatore informatico ed ex dipendente di una multinazionale e dentro ormai da più di tre anni per stupro.
Lui proclama la sua innocenza e se scorri gli atti processuali mediti che in Italia un qualsiasi neolaureato in giurisprudenza chiedere non solo l’assoluzione e che un qualche “tribunale del riesame” forse lo avrebbe rispedito a casa in un lampo.
Non siamo giudici, non spetta a noi decidere, ma l’obbligo è di raccontare.
Luglio 2002: Parlanti lascia la sua amica e dopo un po’ di anni in America torna in Europa, da dove gira il mondo facendo il suo lavoro. Le cose gli girano benone, ma due anni dopo, di passaggio all’aeroporto di Dusseldorf venendo dall’Irlanda, un doganiere tedesco deve avergli detto “ Warten Sie, bitte!” Bloccato, scopre che su di lui da 20 mesi pende un mandato di arresto internazionale e lo schiaffano dentro. Dentro e basta: nessuna possibilità di telefonare, chiedere del consolato italiano, avvisare la famiglia. E intorno si parla solo tedesco: i suoi diritti? E chi mai li conosce? In Italia diventano matti perché non lo trovano più poi – scoperto – inizia un lungo braccio di ferro per istradarlo, ma la Magistratura di Milano alza le mani: da noi non ha precedenti e non ha fatto alcun reato, se la vedano tedeschi ed americani”. Ricordate Alberto Sordi in “Detenuto in attesa di giudizio?” Solo che questo non è un film e serve poco la comune cittadinanza europea: sette mesi e poi imbarco per gli USA, ammanettato. Arriva e passa alla prima tappa, il carcere di dove si “ammorbidiscono” i prigionieri. Nessuna ora d’aria, pila in faccia a tutte le ore e alla fine una proposta semplice semplice: “Dichiarati colpevole anche di uno solo dei reati, qualche mese e sei fuori e per Natale stai già in Italia, ok?” E’ il metodo usato per tutti, il 96% dei processi in California finisce così e giudice e pubblico ministero (che sono cariche elettive popolari) possono citare con orgoglio le loro statistiche “Abbiamo preso il 96% di rei confessi, il sistema funziona”
“Per niente, io non ho violentato nessuno” prova a sostenere Parlanti. Il processo è duro, controverso, le prove sembrano vacillare, la vittima cade in vistose contraddizioni ma alla fine la giuria popolare ci crede (sembra che il PM abbia giurato che in Italia Carlo avesse già subito condanne per reati sessuali, ed almeno questa è una infamia ed una grossolana bugia, la sua fedina penale è intatta). “Colpevole “si esprime la giuria e fanno nove anni di carcere, buttando via la chiave.
Da tre anni Carlo Parlanti è ad Avenal, ma difendersi è dura: è emerso che alcune foto sembrano davvero false, che non ci sono prove dirette, che la denuncia di stupro è stata presentata 21 giorni dopo e non ci sono test medici, ma intanto stai dentro e l’appella costa fiumi di denaro, che non ci sono.
Carlo è malato e glielo si legge negli occhi, prova a spiegare che cosa significhi vivere in una cella di 400 persone senza freni, cosa succede quando spengono la luce, quale sia la sua dieta che al massimo si può integrare con 90 dollari al mese.
Carlo è’ pure sfortunato con la logistica: Avenal dipende dal nostro consolato di San Francisco ed il console Roberto Falaschi fa quel che può, ma per andarlo a trovare in pieno deserto ci vuole più di una giornata. In compenso magistrati, avvocato e consolato competente per la causa penale è Los Angeles, trecento chilometri più a sud. Anche per la burocrazia italiana Parlanti è una specie di apolide.
Volano le ore, l’altoparlante annuncia l’uscita mentre le copie ai tavolini si stringono strette, bambini che piangono, porte che lasciano entrare l’aria bollente del mezzo pomeriggio. Finalmente fuori dal recinto scatto una foto all’intero complesso e dopo un attimo arriva un’auto con sirena: “Lei Sta fotografando un sito vietato!”
Come non detto, non si deve vedere Avenal, California, quella diversa dai film.
Marco Zacchera
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